Che colore è oggi? La sinestesia e le percezioni sensoriali

Che sapore ha la parola “prato”? Di che colore è il numero 21? Sono domande alle quali potrebbe rispondere solo il 3% circa della popolazione, ovvero le persone interessate da “sinestesia”, uno dei fenomeni percettivi più affascinanti al quale però le neuroscienze non sono ancora riuscite a trovare una spiegazione.

Normalmente, per rispondere a un determinato stimolo il nostro cervello attiva una specifica area, così se passiamo un dito su una superficie ruvida avremo un’esperienza legata al tatto. Un sinesteta invece unisce in un’unica sfera sensoriale la percezione di sensi distinti che interagiscono e si sovrappongono l’un l’altro. Sfiorando ad esempio quella stessa superficie ruvida al sinesteta sembrerà di coglierne anche il suono; leggendo una parola ne sentirà anche il sapore, ogni giorno della settimana avrà associato un colore, oppure l’odore e i numeri del calendario assumeranno per lui precise forme geometriche. Un altro elemento ricorrente è “il tocco a specchio”: la sinestesia permette di vedere una persona che viene toccata e provare la sua stessa sensazione, nello stesso punto del corpo pur senza essere a propria volta toccati.

L’origine di questo fenomeno non è ancora stata chiarita: alcuni autori sostengono si tratti di un fattore genetico, altri sono convinti sia conseguenza di particolari esperienze ambientali. Di certo, sappiamo che la sinestesia è spesso associata a ottime capacità mnemoniche e creative. Nella sua autobiografia Vladimir Nabokov, l’autore di Lolita, descrive i colori di ciascuna lettera, ed è abbastanza comune che i musicisti ( Mozart, Duke Ellington, Tori Amos, solo per citare alcuni nomi) associno suoni a colori. Il sinesteta non può essere confuso con una persona che ha delle allucinazioni,in quanto le risposte sensoriali nel soggetto sinesteta sono ripetibili e prevedibili.
Attualmente gli studi sull’incremento cognitivo generato da programmi di allenamento per sviluppare esperienze sinestesiche stanno orientandosi anche verso la possibilità di verificare se gli stessi possano produrre allenamenti adattabili a supportare alcuni gruppi di pazienti con determinati deficit cognitivi.

Una risata al giorno

A tutti noi è capitato almeno una volta di rimanere vittime di una risata contagiosa. È una sensazione pervasiva, persino piacevole, alla quale non ci si riesce a sottrarre facilmente.
Sappiamo ormai da tempo che l’uomo ha la tendenza a ripetere gli stati d’animo di chi gli sta accanto. I neuroni specchio ci permettono di osservare le azioni degli altri e imitarle. Questi atteggiamenti svolgono un ruolo essenziale nella socializzazione, perché ci permettono di rafforzare i vincoli con gli altri.

Lo stesso meccanismo, a livello cerebrale, vale anche per la risata. Quando vediamo qualcuno che ride, il nostro cervello istintivamente lo imita. La risata dunque sarebbe “contagiosa” perché ha lo scopo di creare legami positivi fra le persone.
Il sorriso è infatti un importante facilitatore dei rapporti sociali. È più semplice venire accettati se si è in grado di usare l’ironia, poiché quest’ultima riesce ad attenuare le gerarchie e a veicolare un messaggio di complicità e non ostilità. Le risate possono favorire ulteriormente i rapporti, sciogliendo le eventuali tensioni, diminuendo l’ostilità, accentuando la complicità, il senso di condivisione e la serenità degli individui.

Ridere, però, provoca prima di ogni altra cosa una serie di effetti fisiologici particolarmente benefici per il nostro corpo. Ad esempio, favorisce la circolazione e l’ossigenazione del sangue, permettendo ai tessuti di rigenerarsi. Allo stesso tempo stimola la produzione di endorfine,neurotrasmettitori che influiscono a loro volta sul sistema cardiovascolare.
Questi ed altri effetti benefici sono stati studiati e valorizzati anche a livello ospedaliero. Non è un caso se, negli ultimi decenni, abbia trovato sempre maggiore spazio la clown-terapia, la terapia del sorriso mirata a indurre nei pazienti, attraverso l’uso della comicità, l’abbassamento della percezione del dolore e la diminuzione dello stress.

Ma perché ridiamo? La scienza, in questo caso, non ha una risposta univoca, ed esistono teorie anche contrastanti. Una ricerca di Alastair Clarke, teorico evoluzionista inglese, individuerebbe però otto motivi per i quali si ride, in ogni parte del mondo, indipendentemente dal grado culturale, di civilizzazione o dai gusti personali.

1. La ripetizione ossessiva, ovvero il classico “tormentone”.
2. La qualificazione, ovvero pronunciare in maniera insolita un termine comune (come succede a chi parla in italiano con un accento straniero).
3. La ricontestualizzazione qualitativa, ovvero quando un elemento noto ci viene presentato in maniera stravolta (il nuovo e buffo taglio di capelli di una persona che siamo abituati a vedere con un’altra acconciatura);
4. L’applicazione, ovvero il comune doppio senso;
5. La fine, quando è l’ascoltatore a dover completare con la propria immaginazione una frase o uno scenario;
6. La divisione, ovvero quando una situazione viene interrotta e ripresa da più persone;
7. L’opposizione, ovvero ciò che riconosciamo come ironia e sarcasmo;
8. La scala, ovvero quando qualcosa viene riproposto in dimensione completamente diversa.

Secondo Clarke, dunque, il cervello si attiva per riconoscere questi schemi e, quando li trova, si ricompensa con una risata. Spesso le risate sono il frutto delle combinazioni di due o più schemi, ed è per questo motivo che non c’è limite alle possibili combinazioni che possono suscitare in noi un moto d’ilarità.

L’ortoressia e “l’integralismo alimentare”

Qualche sera fa mi sono imbattuta in una divertente scenetta di Maurizio Crozza che interpretava il personaggio di Germidi Soia, chef vegano del ristorante “Satùt-de-Cartòn”. Il comico genovese estremizzava in chiave comica l’attenzione per la cucina vegana, ayurvedica e crudista, ma è innegabile che in questi anni si stia fortunatamente cercando una diversa consapevolezza legata al cibo e al modo che abbiamo di nutrirci. Come tutte le nuove tendenze, anche quella dell’alimentazione sana si porta dietro una scia di domande alle quali nutrizionisti e medici stanno cercando di rispondere.

Esistono però anche delle implicazioni psicologiche, e nel 1997 Steven Bratman coniò un termine per indicare la ricerca ossessiva di alimenti sani: ortoressia. L’attenzione esagerata per la selezione del cibo, il preferire sempre la salute al gusto e sentirsi in colpa se non si segue la dieta autoimposta; ma anche il sentirsi bene solo se si mangia nel modo ritenuto corretto e impiegare eccessivo tempo nella pianificazione e preparazione dei pasti sono fattori che portano a considerare l’ortoressia come una nuova dipendenza a carattere ossessivo-compulsivo. Ovvero, una problematica legata all’ansia non gestibile e a comportamenti altrettanto involontari. Esattamente come l’anoressia e la bulimia, con la differenza che il pensiero è rivolto alla qualità del cibo ingerito, e non solo alla quantità.

Le persone con queste tendenze alimentari dimostrano spesso di essere affette da problemi di ipocondria, e di cercare spasmodicamente un corpo forte che resista a contaminazioni, malattie e anche allo scorrere del tempo. In molti casi queste fissazioni nascono da una lettura parziale della realtà, così come ci viene restituita dai media che ci hanno parlato, nel tempo, di mucca pazza, aviaria, e salumi cancerogeni, portandoci a sovrastimare alcuni pericoli.

Attenzione: stiamo parlando di una patologia, che deve essere distinta dalla semplice ricerca dei cibi sani. Si tratta di un vero “integralismo alimentare” che può compromettere altri aspetti della vita, come le relazioni sociali, l’equilibrio fisico e psicologico.

L’ortoressia può portare a un isolamento sociale: non è facile partecipare a occasioni mondane – in Italia, soprattutto, spesso basate sul cibo – con chi non condivide le stesse abitudini alimentari. Pensiamo che per un ortoressico, ad esempio, anche semplicemente prendere un caffè può diventare un problema.

Sul versante più intimo e personale, invece, le persone affette da ortoressia praticano una rigida osservazione di regole autoimposte, e possono vivere un senso anche profondo di malessere per qualsiasi eccezione. Controllare l’alimentazione può diventare un modo per illudersi di avere il controllo su se stessi,una modalità disfunzionale per cercare di abbassare l’ansia e migliorare l’umore, ecco perché anche mangiare una patatina può avere ripercussioni e turbamenti più profondi.

L’ortoressia, fatta rientrare nel DSM 5 nel “Disturbo evitante/ restrittivo dell’assunzione di cibo”, una volta diagnosticata da uno specialista, può essere trattata preferibilmente con approcci integrati che comportino i contributi di psicoterapeuti, medici e dietisti.

Gli occhi

 

Un vecchio adagio sostiene che gli occhi sono lo specchio dell’anima, ma oggi la psicologia prova a interrogarsi sul contrario, ovvero: gli occhi riescono a condizionare i nostri processi mentali? Non si tratta naturalmente di una questione cromatica o estetica, ma legata al loro movimento.

Grazie ai sistemi di eye tracking gli studiosi hanno la possibilità di tracciare con esattezza la direzione dello sguardo, rivelando implicazioni molto interessanti. È quindi possibile capire che emisfero del cervello stiamo attivando in base al punto che inconsapevolmente fissiamo.

Se guardiamo a sinistra, si attiva l’emisfero opposto, quello destro, che aiuta il pensiero creativo e meno quello analitico. Siamo quindi più portati a lasciarci andare ad associazioni creative, e più capaci di fornire dettagliati giudizi estetici, spaziali o musicali; al contrario, quando guardiamo a destra, attiviamo l’emisfero sinistro, con performance matematiche migliori e siamo più abili nel risolvere problemi linguistici.

Chiudere gli occhi aiuta la concentrazione perché interrompe il flusso di informazioni visive (le distrazioni). Non è un caso, infatti, che quando siamo impegnati a risolvere un problema o una situazione che ci mette in difficoltà sbattiamo le palpebre più frequentemente.

Il nostro cervello, dunque e’influenzato dai segnali provenienti dai sensi e dal corpo. Si sta già immaginando come sfruttare questa consapevolezza, cercando tecniche che possano aiutare le persone a utilizzare al meglio le potenzialità mentali grazie anche a un uso “accorto “dello sguardo.

Una di queste tecniche, utilizzata a partire dagli anni novanta,si chiama EMDR, un acronimo che significa “Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso movimenti oculari”. Si tratta di un metodo psicoterapico che facilita il trattamento delle problematiche che sono conseguenza di eventi traumatici o di esperienze stressanti, quali terremoti, lutti improvvisi o anche attacchi terroristici. Attraverso la giusta serie di stimolazioni oculari si riesce infatti ad arrivare alla desensibilizzazione del ricordo e all’elaborazione degli eventi traumatici che ci disturbano.

Il metodo scientifico e lo studio dell’anima. La nascita della psicologia e la sua ricerca di autonomia

La storia della psicologia comincia nella Grecia classica. Già Platone e Aristotele si interrogavano sull’immortalità dell’anima e sulla capacità degli uomini di percepire, pensare e sperimentare le cose che succedevano loro.
L’impossibilità di applicare allo studio dell’anima il metodo scientifico, prerogativa delle scienze naturali, per lungo tempo ha impedito a questa disciplina di potersi definire tale, e l’ha relegata al campo delle speculazioni filosofiche.
Per contro, gli studi sul funzionamento fisiologico del nostro cervello, anche se strettamente scientifici, poco raccontavano della maniera in cui pensiamo e ci comportiamo.
Nel XVII secolo si è quindi cominciato a parlare di psicologia come disciplina di studio ma solo verso la fine del XIX secolo è iniziata a essere considerata una scienza autonoma, nello stesso periodo in cui nascevano altre discipline come le neuroscienze e la sociologia con le quali avrebbe sempre intrattenuto forti legami.

Il medico Wilhelm Wundt ha largamente contribuito a fare della psicologia un soggetto scientifico autonomo. Nel 1874 pubblicò quello che è uno dei primi e più importanti trattati di psicologia, dal titolo “Elementi di psicologia fisiologica”, e cinque anni più tardi creò il primo laboratorio di psicologia sperimentale (in Italia, Simone Corleo lo avrebbe imitato nel 1889).
Il suo obiettivo era applicare il metodo scientifico allo studio dell’anima. In condizioni regolate di laboratorio, osservava e misurava le reazioni dei soggetti a differenti sensazioni, oltre che i loro resoconti di queste esperienze. Pose particolare attenzione al fatto che gli esperimenti fossero uguali e ripetuti in maniera identica, gettando i fondamenti scientifici della psicologia sperimentale.

Nel XX secolo si sono sviluppati differenti approcci alla psicologia: alcuni l’hanno trattata come si fa con le scienze naturali, attraverso osservazione e sperimentazioni in laboratorio, altri l’hanno considerata una scienza clinica che poteva essere d’aiuto alle persone con turbe dello spirito e del comportamento. Molti altri approcci si sono sviluppato e la psicologia si interroga su numerosi ambiti della nostra vita quotidiana, e ha le applicazioni più svariate, dalla terapia clinica alla politica, fino anche alla pubblicità. È un campo vasto e sempre affascinante.
In particolare la psicologia scientifica, secondo il Dizionario di Psicologia di Umberto Galimberti, “studia i processi psicologici sia consci che inconsci attraverso i quali un soggetto costruisce le proprie risposte comportamentali. Tali processi riguardano l’intelligenza, la memoria, la percezione, le esperienze interiori come i sentimenti o le aspettative e i meccanismi inconsci”.

‪#‎pilloledipsicologia‬ ‪#‎metodoscientifico‬ ‪#‎wilhelmwundt‬

Due mesi in una grotta

Nel 1962 il geologo francese Michel Siffre ha ventrité anni quando decide di tentare un esperimento di isolamento “fuori dal tempo” che avrà un forte impatto mediatico in tutto l’Occidente. Siamo nel pieno della guerra fredda e si fa sempre più pressante l’ipotesi di dover passare lunghi periodi al riparo nei rifugi antiatomici. Allo stesso tempo, dopo Gagarin, anche John Glenn fa il suo primo volo nello spazio nel 1962 e si pensa a viaggi di sempre maggiore durata.

Siffre si propone dunque di provare a sopravvivere per un lungo periodo in un ambiente ostile e isolato, e il 18 luglio si introduce a 130 metri di profondità nella caverna dello Scarasson, in Piemonte. Non ha con sé alcun orologio, né la possibilità di misurare lo scorrere del tempo, ma si tiene in costante contatto telefonico con i collaboratori in superficie, che monitorano ogni sua attività. Il suo obiettivo è quello di studiare le reazioni dell’organismo umano, in particolare la modificazione del ritmo circadiano. In parole povere, vuole perdere la nozione del tempo per ritrovare “il ritmo originale dell’uomo”, e verificare se il nostro “orologio interno” che compie cicli di 24 ore rimane immutato anche in condizioni di totale isolamento.

Siffre uscirà dalla grotta il 14 settembre, e per tutti i due mesi di permanenza il suo organismo avrà conservato un periodo stabile di poco superiore alle 24 ore. Ha dormito otto ore ogni sedici di attività. In caso di attività prolungata, il periodo di sonno è diminuito, e viceversa.

Questa esperienza fornirà un contributo interessante per portare all’attenzione del grande pubblico gli studi sui ritmi biologici, e sull’importanza del sonno.
Cosa succede, infatti, quando dormiamo? Lo sappiamo grazie all’utilizzo dell’elettroencefalografia (EEG) che permette di registrare l’attività cerebrale attraverso degli elettrodi posizionati sulla testa.
Durante il sonno il nostro corpo è relativamente inattivo ma il cervello rimane parzialmente vigile e passa attraverso diversi stadi di coscienza, con cicli che durano 90 minuti ciascuno. Nel corso di ciascuno di questi cicli, infatti, il sonno diventa sempre più profondo fino a quando il processo si inverte per tornare a uno stato prossimo a quello della veglia. L’ultima fase del sonno, detta “fase Rem” si caratterizza per un totale rilassamento del corpo, in contrasto con un’elevata attività cerebrale e rapidi movimenti oculari (ecco perché si chiama anche “sonno paradosso”). Di ciclo in ciclo, la durata della fase Rem si allunga, fino a quando non siamo pronti per il risveglio, quattro o cinque cicli dopo esserci addormentati.

Non conosciamo ancora esattamente gli effetti che hanno sul nostro corpo il sonno paradosso e il sonno ortodosso (quello coincidente con la fase non-Rem), ma gli studi concordano nell’affermare che entrambe le fasi sono indispensabili a garantire una buona salute.

‪#‎pilloledipsicologia‬ ‪#‎michelsiffre‬ ‪#‎sonno‬ ‪#‎faserem‬

I cani, i gatti e i padri fondatori della psicologia comportamentista

Nel 1890 il fisiologo russo Ivan Pavlov, mentre eseguiva alcune ricerche sulla digestione dei cani, ideò un modo per raccogliere e misurare la loro salivazione, che notò essere una reazione alla presenza del cibo, ma non solo. Pavlov provò a far precedere alla somministrazione del cibo un suono e, col tempo, notò che i cani salivavano anche al semplice ascolto del suono che era diventato per loro uno stimolo psicologico.
Con il condizionamento, il suono (uno stimolo neutro) riusciva a generare la salivazione, una risposta che ad esso non era direttamente correlata, ovvero una risposta condizionata. Il principio del condizionamento pose le basi per il comportamentismo, la corrente psicologica che avrebbe dominato il mezzo secolo seguente.

L’approccio comportamentista è nato dal desiderio di far uscire la psicologia dal campo delle speculazioni filosofiche e di farla diventare una scienza stabilendo dei metodi scientifici di studio della nostra psiche. Numerosi psicologi americani cominciarono a credere che si potesse comprendere lo spirito osservando la sua interazione col mondo attraverso i comportamenti. Ciò che interessava loro era comprendere, attraverso un metodo sperimentale, la relazione tra certi tipi di stimoli (ambientali) e certi tipi di risposte (comportamentali).

Lo psicologo americano Edward Thorndike proseguì gli studi di Pavlov e diede una nuova connotazione al concetto di “condizionamento”. Nei suoi esperimenti, Thorndike chiudeva i gatti dentro a particolari gabbie che si sarebbero aperte solo nel momento in cui l’animale avesse azionato una particolare leva. All’esterno della gabbia c’era una ciotola piena di cibo ad attenderlo.
Mentre Pavlov condizionava i suoi cani con uno stimolo neutro, i gatti di Thorndike dovevano scoprire da sé quale comportamento portasse a una ricompensa. Se all’inizio i gatti scoprivano la maniera di uscire dalla gabbia solo per caso, proseguendo le osservazioni misurò che i gatti ci mettevano sempre meno tempo a raggiungere il loro intento.
Stabilì dunque che i gatti ripetevano con più frequenza le azioni che portavano al risultato voluto (condizionamento positivo) e abbandonavano quelle che non servivano al loro scopo (condizionamento negativo).

Nel 1905 teorizzò le sue scoperte con tre leggi. La “legge dell’esercizio” stabiliva che l’apprendimento è graduale e migliora con l’esercizio; la “legge dell’effetto” spiega che l’apprendimento è legato al comportamento, ovvero la possibilità che un comportamento si ripeta è più alta se conduce a un risultato desiderabile; e la “legge del trasferimento” dice che una risposta acquisita in una situazione verrà più facilmente ripetuta in altre situazioni quanto più queste sono simili alla prima.

Thorndike generalizzò le sue scoperte dall’animale all’uomo: la sua pedagogia utilizza le leggi dell’apprendimento, e si base dunque sull’idea che una buona ricompensa riesca a influenzare il comportamento di un soggetto più di quanto non riesca a fare una dura punizione.

‪#‎pilloledipsicologia‬ ‪#‎comportamentismo‬ ‪#‎condizionamento‬ ‪#‎stimolo‬

La scoperta della sessualità e l’educazione sentimentale

L’adolescenza non è mai durata così a lungo. Nell’ultimo secolo il momento della pubertà si è sempre più anticipato: oggi, ad esempio, per una ragazza le prime mestruazioni arrivano in un’età compresa tra i 9 e i 12 anni, e rispetto al passato arriva con molto più anticipo anche la prima esperienza sessuale. Allo stesso tempo, si allontana sempre più il raggiungimento dell’indipendenza economica, e questo obbliga i giovani a gestire in maniera nuova tutta la complessa rete delle dinamiche familiari.

Ciò che non cambia – e forse non cambierà ancora a lungo – è il senso di spaesamento che i genitori provano quando si rendono conto che i figli (i loro”bambini”) cominciano a fare le prime esperienze con l’altro sesso. Quando una relazione tra adolescenti si prolunga nel tempo, i genitori possono provare qualche difficoltà e imbarazzo, perché non è più possibile per loro negare la sessualità dei propri figli. Eppure non è davvero il caso di fare finta di niente.

La consapevolezza della propria sessualità è un percorso graduale e soggettivo: in quel periodo i ragazzi escono dal controllo parentale e cercano la propria identità rapportandosi con il resto del mondo. Ognuno, dunque, cercherà propri modelli di comportamento, anche sessuale, mediando tra gli insegnamenti e l’esempio ricevuti dai genitori e quelli assorbiti dal contesto sociale nel quale vivono.
Anche se i ragazzi sono naturalmente restii ad affrontare certi argomenti con i propri genitori – e preferiscono invece cercare altrove le informazioni – è bene che comincino a familiarizzare anche con l’anatomia e la funzionalità degli organi sessuali, con la fisiologia del rapporto sessuale, così come con la contraccezione e le malattie trasmissibili sessualmente.

La scoperta della sessualità non è sempre vissuta serenamente, ma può essere minata da inquietudini e sensi di colpa. Le domande che ragazze e ragazzi si fanno in questo ambito paiono riguardare soprattutto la funzionalità degli organi sessuali; le mestruazioni, la loro regolarità, l’intensità del dolore, la possibilità di rimanere incinta; o come potrà essere la prima volta, quando sarà il momento giusto o se si proverà dolore.

Occorre ricordare che parlarne con i genitori è difficile, soprattutto se questa abitudine non è radicata fin dall’infanzia ed è opportuno che gli adulti evitino di affrontare il discorso in termini prescrittivi o allarmistici: è indispensabile non limitarsi ad affrontare l’argomento solo citando virus o gravidanze indesiderate. Ciò che i genitori dovrebbero riuscire a fare è trasmettere loro l’idea che la sessualità è uno scambio di piacere, intimità e confidenza, ed è auspicabile che avvenga nel contesto di una relazione di coppia. Fermo restando che ogni maggiorenne deve sentirsi libero di vivere il proprio corpo come meglio crede, occorre educare i figli all’idea che il sesso acquista una dimensione più profonda e godibile se è parte di un rapporto di affetto e stima reciproca.

Il compito dei genitori è quindi quello di crescere un bambino in un clima che favorisca la comunicazione e, quando verrà il momento, non farsi trovare impreparati o imbarazzati a rispondere alle richieste dei figli, che siano esse esplicite o, più spesso, inespresse, ricordando che la famiglia non deve solo educare alla dinamica degli organi riproduttori e alla sessualità, ma che fin dall’infanzia deve effettuare una corretta educazione sentimentale che passi dall’aiutare i figli alla consapevolezza dei propri stati d’animo imparando a riconoscere e nominare le emozioni e i sentimenti propri, per permettere poi ai bambini di riconoscere e di rispettare le emozioni e i sentimenti nelle altre persone, punto di partenza imprescindibile per costruire relazioni affettive soddisfacenti.

Il vizio del fumo negli adolescenti.

Quante volte ci troviamo costretti a dire dei “no” ai nostri figli? E quante volte loro sembrano comportarsi in maniera diametralmente opposta rispetto alle nostre indicazioni?

Niente paura, è tutto normale. Durante gli anni dell’adolescenza si hanno due istanze psicologiche preponderanti: la ricerca dell’identità e dell’autonomia. È in questo periodo, ad esempio, che la maggior parte dei fumatori ha provato la sua prima sigaretta. Fumare può essere uno strumento per entrare in contatto con gli altri, in quanto rito da condividere con il resto del gruppo; allo stesso tempo, fumare è anche un gesto di sfida e ribellione nei confronti dei genitori, finalizzato a mostrare la propria identità come diversa e autonoma rispetto a quella della famiglia di appartenenza.

Come può fare dunque un genitore per disincentivare comportamenti che possono avere conseguenze anche gravi per il futuro del proprio figlio? Durante l’adolescenza si realizza il collegamento fra diverse aree del cervello. Un effetto di questo processo è la crescita di fibre nervose che renderanno possibile, al termine del periodo adolescenziale, lo sviluppo della capacità di controllo cognitivo, la quale porta a una diminuzione dell’impulsività. Aumenta di conseguenza lo spazio mentale di riflessione e si affina il cosiddetto “pensiero globale” che porta a considerare il quadro complessivo di una situazione e a prendere in considerazione comportamenti alternativi rispetto all’impulso iniziale.

Anziché bloccare un impulso reprimendolo, i genitori e gli adulti che hanno rapporti con un adolescente dovrebbero concentrarsi su un elemento positivo da coltivare, e sulla capacità dei giovani di considerare la totalità – lo globalità, appunto – di una situazione. Per tornare al fumo, con gli adolescenti la strategia non è dunque quella di vietare il consumo di sigarette, né instaurare un clima da “proibizionismo” – è impossibile controllare un ragazzo a tempo pieno. Diverse ricerche hanno dimostrato che le classiche campagne di sensibilizzazione ai danni provocati dal fumo non funzionano con i più giovani. Oggi chi inizia a fumare sa bene i danni a cui va incontro, conosce gli effetti sulla salute e anche sulle “finanze”, eppure non è spaventato dalle conseguenze. È difficile per un adolescente percepire il pericolo concreto di qualcosa che potrebbe dare i suoi effetti a distanza di anni.

La strategia che, secondo alcuni studi, si è rivelata più efficace, è stata quella di informare gli adolescenti sul fatto che, ad esempio, gli adulti proprietari delle industrie del tabacco stavano facendo loro il lavaggio del cervello per convincerli a fumare, in modo da poter guadagnare sulla loro salute. Si è preferito dunque concentrarsi sul valore positivo del dimostrarsi forti di fronte ad adulti manipolatori, interessati solo al guadagno.

Il consiglio, per concludere, è quello di perseguire un valore positivo, di incoraggiare la riflessione che stimoli e favorisca la capacità di fare scelte autonome e ponderate. Sarebbe controproducente infatti che i genitori si dimostrassero troppo ansiosi o bisognosi di controllare tutto, devono invece favorire, anche attraverso un utilizzo ponderato di regole e di fiducia, la capacità dei giovani di responsabilizzarsi e di assumere il controllo dei propri comportamenti.

Il viaggio dell’adolescenza. Tra effervescenza emotiva ed esplorazione creativa

Qualunque genitore sa bene che uno dei passaggi più delicati nell’espletamento della propria funzione genitoriale si ha nel momento in cui ci si rende conto che non sarà possibile mantenere un controllo su che tipo di persona diventerà il proprio figlio.
L’adolescenza è per definizione una fase di grandi cambiamenti e l’atteggiamento migliore che  genitori e figli possono avere è quello di mantenere una costante apertura nei confronti degli eventi. Il compito – mai facile – di un genitore è dunque quello di provare a entrare in sintonia col proprio figlio, al fine di costruire un rapporto di reciproca fiducia mentre quest’ultimo attraversa le molte e imprevedibili tappe tipiche di questo percorso.

Lo psichiatra americano Daniel Siegel, nel suo libro “La mente adolescente” individua alcuni aspetti peculiari di questa fase della vita: l’effervescenza emotiva, la socialità intensa, la ricerca di novità e l’esplorazione creativa.
Anche se spesso gli adulti faticano a ricordarlo, tutti hanno vissuto periodi durante i quali
l’intensità delle emozioni era così forte da rendere difficile la sua gestione: se la passione può alimentare la pienezza vitale, a volte oscillazioni marcate nelle emozioni possono essere sfiancanti e complicare l’esistenza.
L’adolescenza è anche caratterizzata da una socialità intensa, da un forte desiderio di uscire, incontrare amici e fare gruppo, per imparare a relazionarsi con gli altri, confrontarsi con loro e per cercare modelli diversi da quelli proposti dalla famiglia. È quindi il periodo in cui le emozioni e decisioni vengono influenzate, talvolta in maniera determinante, dai coetanei, con tutti i possibili risvolti che questo può comportare.
La ricerca di novità è un altro elemento essenziale e importantissimo, perché le nuove
esperienze arricchiscono il bagaglio culturale ed emozionale e sono utili per definirci come
individui e in relazione al contesto nel quale viviamo. Da ragazzi, però, si inizia anche a capire che per dedicarsi a una passione – che sia uno sport,uno strumento musicale o una lingua –  vengono richieste disciplina e perseveranza, ed è questo uno degli insegnamenti che rendono  un po’ più adulti.
L’esplorazione creativa si riferisce infine al momento in cui i ragazzi si approcciano a nuove visioni della vita: scoprire che esistono modi di vedere e vivere differenti da quelli ai quali sono abituati è un’esperienza elettrizzante ed entusiasmante, ma non tutte le esplorazioni sono facili da comprendere o condividere (a volte anche per i genitori stessi).
Cosa può fare dunque un adulto per non lasciare solo il proprio figlio in questo periodo tumultuoso? Indubbiamente la risposta non è semplice: occorre ascoltarlo il più possibile e mantenere un atteggiamento di presenza, qualunque cosa accada, cercando di trovare il giusto equilibrio tra disponibilità, apertura al dialogo e trasmissione coerente di regole.
È questo dunque ciò che costituisce una base imprescindibile per un viaggio sano e fruttuoso attraverso l’adolescenza, quali siano i problemi che i ragazzi e i loro genitori si troveranno ad affrontare.